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Ogni luogo è fatto di storie e le storie sono fatte di persone e luoghi.
Queste storie d'amore sono racconti. Chi è nato nel Monferrato ma vive lontano, chi è andato via ma ha deciso di tornare e chi invece ha scelto di venire a viverci.

La mia terra

Didi

Questa è la mia terra e ricordo bene quando l’ho capito.
Ho vissuto all’estero per qualche anno e, durante uno dei miei rientri in patria, ho visto tutto con occhi diversi.
Ho visto le mie tondeggianti colline accogliere il sole al tramonto.
Quel sole generoso disegnare, allungando le ombre dei nostri alberi, delle nostre cascine e dei nostri pregiati filari di uva, una meravigliosa opera d’arte.
Forse sono solo le immagini nel cuore di chi il Monfrà ce l’ha dentro, ma sono convinta che chiunque riesca
a vedere l’armonia di questi luoghi se ne innamora, insomma quando un quadro è veramente bello lo è per tutti.

CHE IL NOSTRO VINO POSSA SEMPRE SCORRERE NELLE NOSTRE VENE. 

Monferrato

Giorgio

La terra illuminata dal pigro sole di mezzogiorno sembrava respirare, rilasciando nebbia che nascondeva la base delle foreste incendiate dai colori autunnali: giallo, rosso e arancione che lottavano per non soccombere al grigio. L’umidità gli era entrata nelle ossa, ricordandogli tutti gli acciacchi della sua vita movimentata: “Chi l’ha detto che lo sport fa bene?” chiese ironicamente al suo cane, che gli trottava al fianco.
Finalmente avevano raggiunto l’agriturismo, la passeggiata gli aveva messo un discreto appetito, che l’età non aveva mitigato. L’oste lo fece sedere al suo tavolo preferito, a lato della vecchia stufa in ghisa che riempiva la sala dell’odore di legna bruciata, che si mischiava ed esaltava quello dello stufato, dei formaggi e del corposo vino rosso che sorseggiava. L’alcool, oltre a scaldarlo, agevolò il fluire dei pensieri.

Era inverno. Per settimane intere il fanciullo di otto anni non aveva fatto altro che guardare fuori dalla finestra della scuola, sperando di vedere un cielo grigio che preannunciasse neve. A quell’età ogni giorno durava un mese, ma infine arrivò la prima nevicata: un’abbondante coltre bianca si era depositata sui tetti, sulle auto, sulle strade. Suo padre conduceva l’auto lentamente e dopo mezz’ora erano arrivati alla casa di campagna della nonna paterna: la vettura non fece in tempo a fermarsi che lui era sceso e aveva cominciato a correre su per il fianco della collina. Stremato, il bimbo si era fermato sotto il caco spoglio in cima al colle, coricandosi e muovendo braccia e gambe per disegnare la sagoma di un angelo, mentre
osservava il suo fiato condensarsi e risalire in direzione opposta ai fiocchi che scendevano placidamente. Il silenzio dominava il paesaggio: le colline erano solo curve sfumate che si perdevano nel bianco. Lo scricchiolio della neve sotto i moonboot lo avvertiva che i genitori stavano andando a giocare con lui.

Prima tiepida mattina di primavera: il bambino si era trasformato in un ragazzo dalle spalle larghe, i lineamenti infantili e una voce roca che non era la sua. Era giunto il momento di svegliare il 125 2-tempi, incontrarsi con gli amici in piazza, tutti ancora sbarbati, capelloni e spensierati. Indossavano la giacca, il casco, e i guanti come un rito, e poi via: dalla
prima, alla sesta, alla prima, senza requie. Centinaia di curve in fila indiana, assordati dagli scarichi modificati, attraversando campi in tonalità di verde, giallo e marrone, sui quali le ombre delle nuvole si rincorrevano come i giovani centauri. Arrivavano a Sassello col sole a picco, gobbi, sudati e assetati: una coca, due fettone di focaccia e tante risate. Ci si parlava guardandosi in faccia, gli occhi non ancora soggiogati da uno smartphone. Un deca di benza e poi di nuovo in sella, per tornare a casa più veloci di prima, per cercare di non prendersi l’ennesima strigliata per il ritardo.

Era un’estate torrida, la canicola svuotava le strade, le città e i paesi. Sulla moto erano in due: lui alla guida, lei sul sellino posteriore, stretta alla vita, sbattendo il casco a ogni frenata o accelerata brusca. Picchiandolo nel fianco quando esagerava con l’acceleratore della Ducati, mentre lui se la rideva dietro la visiera. I filari carichi d’uva sfilavano ai lati della strada, mentre attraversavano paesi temporaneamente abbandonati, che quel luogo se lo portano con orgoglio, anche se abbreviato, nel nome all’ingresso e all’uscita: Castelletto M.to, Lu M.to, Cuccaro M.to, Vignale M.to. Come per dire: “Il nome è lungo, sul cartello non ci sta tutto, ma sappiate che il nostro paese fa parte di questo meraviglioso angolo di Terra.” Verso sera, si fermavano al pub con vista sulle colline: il cielo passava dall’azzurro al viola in mille sfumature, mentre il sole si andava a nascondere dietro l’orizzonte, abbassandosi a una velocità tale da sembrare accelerato, come se andasse di fretta.

Emerse dal fiume dei ricordi, il vino era finito e la locanda deserta. Uscì all’esterno, e contemplando il paesaggio rimase ancora una volta meravigliato da quelle colline: nel Monferrato ci era nato, e fino a pochi anni prima gli era risultato difficile apprezzarlo. Se ne era dovuto allontanare, senza poterlo toccare, gustare, odorare. Solo quando fu irraggiungibile, aveva capito quanto fosse stato fortunato ad aver girovagato su quelle dolci pendenze ogni giorno, fin dalla nascita. Ma ora era tempo di tornare, un’ultima passeggiata lo attendeva. E senza esitazione, col fedele Akita al suo fianco, si gettò in mezzo alla nebbia che lo avvolse nel suo gelido abbraccio.

Il mio Monferrato

Federica

Nel breve periodo di viaggi durato circa 10 anni, sono tornata spesso nel luogo in cui sono nata e cresciuta, il Monferrato. La voglia e la curiosità di conoscere realtà differenti mi hanno trascinata come un fiume in piena verso posti da me prima sconosciuti, dandomi la possibilità di scegliere cosa introdurre nell’immenso zaino chiamato “esperienza di vita”.
Quando ho deciso di tornare a casa, ricordo di aver ascoltato “ Country roads” di John Denver: Country roads, take me home. ( Strade di campagna, portatemi a casa). To the place I belong . (Al luogo al quale appartengo).
Non è semplice avere un’identità chiara e stabile nel 2020, abbiamo svariate possibilità eppure scegliere risulta sempre essere un’enorme difficoltà. Diventa più semplice quando si hanno delle radici ben salde nel profondo della propria terra.
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Se penso ai miei compaesani li immagino come una vite; essa espande con forza e decisione le proprie radici facendosi spazio tra il terreno, non appena incontra altre radici, però, si ferma; si chiama “distanza di rispetto” in cui non si invadono gli spazi altrui ma si resta comunque vicini.

In molte zone del Piemonte, i vigneti ricoprono quasi interamente le sommità e le pendici delle colline, il bello dei Monferrato è che, a questo paesaggio viticolo, si alternano zone boschive e piccole coltivazioni di altro genere, creando paesaggi di grande suggestione. Quel che mi è mancato di più però è il prodotto finale, il nettare degli dei, il magico vino del Monferrato. Ogni regione d’Italia ha delle magnifiche varietà, ma quando mi trovo in una trattoria piemontese, con in tavola un piatto di agnolotti, faccio sempre fatica a scegliere tra un dolcetto, una barbera d’Asti, un grignolino e via dicendo.

Nel 2014, il Monferrato è stato dichiarato “patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco”, oltre a valorizzare i suoi splendidi paesaggi, però, bisogna riconoscergli un grande patrimonio culinario. Non serve elencare tutte le materie prime utilizzate per creare i piatti più conosciuti, (si possono trovare ovunque sul web), quel che li caratterizza è che sono spesso a km 0, prodotti artigianalmente e di ottima qualità.
Nel 2016 sono stata in Australia per lavoro e, da implacabile curiosa, li tempestavo di domande, spesso gli argomenti erano riguardanti la loro tradizione; ricordo il mio immenso stupore ogni volta che qualcuno rispondeva: “non abbiamo un piatto tipico, facciamo tanti barbeque!”.
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Nella breve esperienza australiana mi sono resa conto che non sarei mai potuta rimanere in un paese con così poca tradizione; chiaramente non solo per la scarsa cultura per il cibo (anche se devo ammettere che la ritengo importante!).
Quando passeggiavo nella bellissima e modernissima città di Adelaide, ero allibita dall’organizzazione e dall’ordine, una città costruita ad hoc per contenere un gran numero di persone e senza creare traffico né disordine.
Addentrandosi nelle vie non riuscivo a provare emozioni, vedevo dei monumenti perfetti ma senza immaginarne una storia antica; è stato strano anche entrare in una chiesa costruita con tecniche antichizzanti per dare un senso di storicità ma pur sempre finto. In quel periodo ho davvero compreso quanto fossi legata al mio paese, dovevo solo
vedere altre realtà per rendermene conto.
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Sono stata segnata anche dall’ultimo viaggio trascorso in Svizzera; paese vicino e simile per certi versi, con una forte tradizione, in particolare nei paesi piccoli che hanno mantenuto usi, costumi e festività molto antiche.
Grazie a quest’esperienza ho ricordato un altro aspetto molto importante del nostro paese: l’accoglienza e i legami umani.
Premetto che sono stata accolta nel migliore dei modi, sia dalle aziende per cui ho lavorato che dai colleghi con cui ho collaborato; l’aspetto più problematico era conoscere gente al di fuori del lavoro, al di fuori della propria “comfort zone”.
In sostanza, sono riuscita a creare dei legami ma non solidi e duraturi nel tempo, forse per il fatto che fossi straniera, forse perché sono stata meno di 2 anni, non lo so di preciso, sta di fatto che il detto “piemontese falso cortese” è estremamente falso, trovo che sia solo il nostro modo di porci, a sembrare freddo e distaccato; nella realtà dei fatti, se entri nel cuore di un monferrino, non potrai più uscirne a mani vuote. So a cosa state pensando: “Eh certo, ogni scarrafone è bello a mamma soja”. Come ogni mamma che adora il proprio figlio, sa bene come esaltare i suoi pregi e come nasconderne i difetti, non per questo non li conosce!

Ieri, mentre percorrevo la strada che collega Ricaldone e Nizza, ho osservato il puzzle di vigneti che ricopre le nostre dolci colline, immersa nei ricordi e nella spensieratezza, ho iniziato a canticchiare la canzone che mi ha riportata a casa e…. ho bucato!! Sono scesa dalla macchina per controllare e confermo, avevo proprio bucato una gomma, da quel momento ho dovuto distogliere lo sguardo passando dallo “scenario bucolico” alla “strada bucata”.
Il primo pensiero è stato “se già ho pochi amici svizzeri, quando verranno a trovarmi, vorrei evitare di perderli in qualche cratere”. Scherzi a parte, quel che mi crea maggior dispiacere, è vedere che dei luoghi così belli non vengano valorizzati da chi li abita e dovrebbe rispettarli più di tutti.

Viviamo un momento di crisi economica ma non per questo dovremmo abbatterci e lasciare andare ciò che abbiamo.
I nostri cugini langhetti ci insegnano quanto sia importante il ruolo del turista e quanto siano cambiati negli anni per fare in modo di accogliere il prossimo per farlo sentire ancor meglio che a casa propria. Vedo ancora troppe case poco curate, campi abbandonati, strade difficili da percorrere, una scarsa partecipazione ad eventi culturali da parte degli stessi paesani e poi tante, troppe lamentele senza azione, senza la vera voglia di cambiare, anzi migliorare, perché dei nostri paesi non cambierei proprio nulla, siamo noi che dovremmo imparare a valorizzare quello che c’è.

Come disse il grande Hemingway nel racconto “Il vecchio e il mare”: “Ora non è il momento di pensare a quello che non hai, pensa a cosa puoi fare con quello che hai”; e noi, cari fratelli monferrini, abbiamo davvero tanto!
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Prendi carta e penna, versa un bicchiere di vino
e raccontaci la tua storia.

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